I due Quasimodo | Alessandro racconta Salvatore
Alessandro e Salvatore Quasimodo |
L’intervista che segue è stata pubblicata per la prima volta dalla rivista “Geometri” nel n. 4 del 1998.
Un estratto è stato poi pubblicato nel volume Segni e sogni quasimodiani a cura di Laura Di Nicola e Maria Luisi, Metauro, Pesaro, 2004.
La si ripubblica qui integralmente.
I due Quasimodo
Di Danilo Ruocco
Lo scrittore Danilo Ruocco incontra, per noi, l’attore e regista Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel per la Letteratura Salvatore Quasimodo e della seconda moglie di lui, la danzatrice Maria Cumani.
Ruocco: Se è già difficile parlare della propria vita, immaginiamo lo sia molto di più raccontare quella di un altro, in questo caso quella del proprio padre. Ma, come si fa a non chiederti chi era Salvatore Quasimodo?
Quasimodo: Era un fico d’India.
R.: Un fico d’India nel senso che era spinoso fuori e dolce dentro.
Q.: Sì, perfettamente. Bisogna, però, aggiungere che non gli piaceva essere maneggiato troppo; quindi bisognava avere una certa cautela per non pungersi.
R.: Tu sei riuscito a non pungerti, o…
Q.: Be’, dopo una certa esperienza, sì; ad ogni modo non era molto facile il primo impatto, anche per chi era intimo. Poi si lasciava andare e si rilassava.
Comunque, bisognava, ogni volta, superare un certo muro, una specie di corazza.
Probabilmente giocava molto in difesa, perché la vita lo aveva abituato a stare attento.
In più di un’occasione ha dovuto affrontare grosse difficoltà.
Anche quando ha ricevuto il Premio Nobel, vi fu tra gli addetti ai lavori chi ha “remato contro”. C’è stata, da parte sua, amarezza e diffidenza e, di conseguenza, ulteriore chiusura.
R.: Contrariato dal Premio Nobel a Quasimodo, Eugenio Montale si mobilitò dalla terza pagina del "Corriere della Sera".
Q.: Sì, con vari articoli, tra cui quello di Emilio Cecchi che io considero insultante per l’intelligenza e mi spinge a dubitare di quella di Cecchi stesso.
R.: Quando hai scoperto tuo padre poeta?
Q.: Me ne sono appropriato abbastanza presto. Il motivo scatenante è stato il mio primo viaggio in Sicilia, vacanza che si tramutò in una permanenza: ho frequentato la Prima Media a Siracusa.
Nella sua Terra, nel contesto in cui lui è cresciuto, frequentando la gente che lui ha conosciuto, ho assaporato tutte le sfumature della sua poesia.
Proprio con l’aiuto dei suoi versi ho capito più in profondità il popolo siciliano e le contraddizioni insite in loro.
R.: In quale misura tuo padre era contraddittorio?
Q.: Per un buon 70%! A volte agiva anche contro se stesso: aveva una buona percentuale di “masochismo” che lo spingeva verso situazioni che sapeva già si sarebbero rivelate “pericolose” e poco produttive per lui. Ma era tale la tentazione di provare, di misurarsi con se stesso, che a volte si trovava in frangenti negativi, da cui difficilmente riusciva ad uscire.
Anche in quasi tutte le relazioni che ha avuto con un numero spropositato di presenze femminili non è mai stato lui a scrivere la parola “fine”.
R.: Secondo te è stata una contraddizione, per un poeta come Quasimodo che ha sentito fin da giovane “il sacro fuoco dell’arte”, esercitare la professione di geometra?
Q.: Direi che c’è stata una qualche affinità tra le due attività, ma si è rivelata dopo: non è stato lui a scegliere un istituto fisico-matematico con orientamento geometra, bensì suo padre che riteneva fosse un tipo di studi che desse maggiori possibilità in una città come era la Messina dei primi del Novecento disastrata dal terremoto.
La fortuna ha voluto che lui avesse dei professori di Lettere straordinari come Federico Rampolla Del Tindaro all’Istituto “A. M. Jaci” di Messina e il fratello di lui, monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, una volta trasferitosi a Roma.
Di non secondaria importanza è, poi, il fatto che quell’istituto di Messina fosse frequentato da giovani dotati quali Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti, Glauco Natoli…
C’era, insomma, un vivaio di intellettuali che, nel 1917, fondarono la rivista "Nuovo giornale letterario", sulla quale, non solo scrivevano i “giovani talenti” menzionati, ma intervenivano anche intellettuali “continentali” come Filippo de Pisis, Giuseppe Ravegnani, Lionello Fiumi e Giuseppe Villaroel: un gruppo di studenti messinesi era, dunque, riuscito a coinvolgere delle grosse firme per il loro giornale.
R.: Il rapporto con alcuni degli studenti che hai menzionato è continuato nel tempo, trasformandosi in amicizia sincera e duratura. Tali relazioni divennero proficue anche dal punto di vista culturale…
Q.: Soprattutto due: Giorgio La Pira che è diventato il suo alter ego spirituale e Salvatore Pugliatti che fu il primo critico della poesia di Quasimodo dalle pagine della rivista "Solaria". Con Pugliatti vi fu anche una fittissima corrispondenza.
R.: I rapporti con il cognato Elio Vittorini?
Q.: Con Vittorini i rapporti furono ottimali nel periodo in cui Elio viveva a Firenze con la sorella di mio padre, Rosa Quasimodo Vittorini, recentemente scomparsa, con la quale aveva fatto “una fuga” alla siciliana coronata dall'immancabile matrimonio riparatore.
Elio ha un po’ aperto le porte a Quasimodo, introducendolo nell'ambiente del caffè delle “Giubbe rosse” frequentato da Eugenio Montale, Alessandro Bonsanti e dagli intellettuali gravitanti intorno alla rivista "Solaria".
In quegli anni la loro fu un’amicizia intensa, fatta anche di frequenti scambi epistolari, nei quali richiedevano l’un l’altro giudizi critici sulle rispettive opere.
La crisi insorse quando Vittorini lasciò Rosina e, forse un po’ incautamente, Quasimodo cercò di criticare la scelta del cognato.
Forse, dato il “disordine” della sua vita, era l’ultima persona che sarebbe potuta entrare nel merito.
In quell'occasione si comportò da perfetto siciliano che perora la causa della sorella…
Quando, in seguito, anche Quasimodo si trasferì a Milano, dove già Vittorini abitava con la nuova compagna, i loro contrasti si appianarono e vi fu un riavvicinamento.
Ricordo mio padre sconvolto dopo un’ultima visita a Vittorini ormai irrimediabilmente minato dal cancro.
R.: Tra le amicizie di tuo padre figurano nomi di pittori come Renato Guttuso.
Q.: Con Guttuso c’è stata un’amicizia fortissima, quasi una fratellanza.
Guttuso sarebbe stato, certo, il migliore illustratore della poesia di Quasimodo, perché fra i due v’era una forte affinità proprio nel concepire la vita e l’arte, seppur in campi diversi. Sentivano all'unisono.
R.: Il rapporto tra la danzatrice Maria Cumani e il poeta Salvatore Quasimodo?
Q.: È stato un rapporto straordinario, di due persone che si completavano a vicenda.
La conoscenza della Cumani ha aperto, per lui, un nuovo modo di “sentire” anche in poesia che si rivela con i versi scritti da quel periodo in poi, proprio mentre Quasimodo si lascia alle spalle il brevissimo periodo ermetico.
Con la Cumani, Quasimodo conosce per la prima volta il coincidere dell’amore fisico con quello spirituale.
In quel periodo, comincia a tradurre i Lirici greci con la conseguente scoperta e assimilazione nella sua poesia dell’unione tra Eros e Thanatos: il desiderio, quasi, di annientarsi nella persona amata.
R.: Alla loro tormentata esperienza di vita, tu hai dedicato uno spettacolo.
Q.: Spettacolo che prende il titolo da una frase che Quasimodo scrisse in una lettera alla Cumani: «Fuori non ci sono che ombre e cadono», ovvero tutto il resto non ha importanza, con l’evidente riconoscimento prioritario dell’unica donna che abbia veramente amato.
Ho cercato di ricostruire il loro rapporto, partendo dall'inizio forte, passionale e osteggiato dalla famiglia della Cumani che non vedeva di buon occhio l’unione della giovane con un uomo già sposato e che guadagnava “due lire” con il suo lavoro di geometra.
Lo spettacolo, poi, illustra il cammino che i due hanno percorso assieme, fino alla scomparsa di Quasimodo e anche oltre, dato che la Cumani ha vissuto il resto della sua vita quasi continuando a vivere con Quasimodo, tanto quella figura le apparteneva.
R.: Quanto, invece, Quasimodo padre appartiene a Quasimodo figlio?
Q.: Me ne sono impossessato completamente: vive dentro di me. Ciò non toglie che una parte di me lo possa criticare, anche perché mio padre mi ha lasciato un segno molto forte anche di sofferenza e difficoltà nel muovermi in un ambiente che, all'inizio, sentivo ostile.
R.: Tu sei cresciuto in un ambiente di poeti e pittori. Quanto, quest’ambiente, ha influito su di te e sulla tua decisione di diplomarti scenografo all'Accademia di Brera prima, e attore alla Scuola del Piccolo Teatro dopo?
Q.: Ha influito in modo determinante. Ho cominciato a frequentare i teatri molto presto, perché mio padre era critico drammatico. Le prime letture che ho fatto non sono stati i fumetti, bensì Dante e Shakespeare e prima ancora che imparassi a leggere, era mia madre che mi leggeva Dante.
Ricordo che una notte mi svegliai in lacrime, perché il canto dedicato a Paolo e Francesca mi aveva talmente scosso da procurarmi un incubo.
Ancora poco più che bambino, volli conoscere Emma Gramatica la quale, saputo che avrei voluto dedicarmi al teatro come regista, mi consigliò di praticare l’arte attorale.
R.: Anche come attore e regista, sei molto legato alla poesia: i tuoi spettacoli partono da testi poetici.
Q.: In effetti sì: dopo varie esperienze teatrali con il Piccolo Teatro; nella compagnia di Ronconi; in Francia con Chéreau e al Salone Pierlombardo con Franco Parenti; ho cercato di crearmi uno spazio, dedicandomi soprattutto a una ricerca sulla parola poetica, sia essa quella scritta da poeti veri e propri, sia essa quella contenuta nei testi teatrali che hanno come base la poesia: l’Aminta del Tasso, l’Oreste di Alfieri o La città morta di D’Annunzio.
In seguito ho tentato di teatralizzare, senza mai prevaricare l’autore, testi che non erano nati per il palcoscenico, ma che, comunque, avevano una forte dimensione teatrale.
R.: Tornando a Salvatore Quasimodo, sono curioso di sapere qualcosa di più sulla vita del poeta durante il periodo in cui lavorava come geometra.
Q.: Ha fatto a lungo questo lavoro perché aveva dei problemi di sostentamento economico, di sopravvivenza: dopo la sua fuga a Roma, si era dedicato ai lavori più diversi, vivendo un po’ “alla giornata”, fino a quando suo padre gli trovò un posto di “geometra straordinario”.
A Reggio Calabria ha seguito la costruzione della Statale ionica.
È stato, in seguito, trasferito ad Imperia, dove si è legato d’amicizia con Barile, Angelo Silvio Novaro, Grande e gli intellettuali della rivista "Circoli".
La vita come geometra è proseguita con il lavoro svolto presso il Genio Civile di Cagliari.
Da lì a Milano e da Milano a Sondrio. Sondrio è stata l’ultima tappa, perché era andata, finalmente, in porto la domanda fatta per lui, parecchi anni prima, da Angelo Silvio Novaro, Accademico d’Italia, di affidargli “per chiara fama” la cattedra di Letteratura italiana al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
Il poeta, avuta la cattedra, creata per lui, lasciò il lavoro di geometra per seguire fino in fondo la sua strada.
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