Quasimodo traduttore di Pascoli


Su invito di Manara Valgimigli che curava l’edizione dei Carmina per l’editore Arnoldo Mondadori, Salvatore Quasimodo tradusse il poemetto Veianius di Giovanni Pascoli.
Di seguito si riportano il testo latino del Pascoli e la traduzione in italiano di Quasimodo.


VEIANIUS
Di Giovanni Pascoli

Veianius armis
Herculis ad postem fixis latet abditus agro.
HOR. Epist. I 1, 4.

Mane coronatos aestivo flore penates
halantemque rosis visit viridemque marino
rore focum, mundamque domum miratur, ut omnis
splendeat assiduo purgata labore supellex;
et placare lares pingui Veianius agna
atque mola salsa properat: tum mica corusca
dissilit aut prunae crepitans ardore voratur,
tum reliquos nidor pervincit lentus odores.
Namque anno redeunte dies hic gaudia festus
magna refert, ex quo proprio latet abditus agro,
et rude donatus tandem sibi vivere coepit,
naribus et calidi fumum abstergere cruoris.
Ergo omni adsuetus solvatur coetus opella:
sit mora, sit requies, falces et sarcula cessent,
et redolens carpant faenum ad praesepia tauri,
et tergum in pratis immune volutet asellus,
vosque larem, famuli, fremitu circumdate lacto,
conclusae resonent famulis epulantibus aedes:
vilica compescat clamorem, at, munus herile,
sistra manu medius tremebunda vernula verset.
Iam pransus late dominus sua rura pererrat,
viticulas numerat, tenues notosque racemos,
et quibus est ausus plantas immittere mali
ipse ornis, et quas cerasos eduxerit ipse.
Tandem ubi densa suis saepes praetenditur arvis
hirta rubo, clymeni spirans serpentis odorem,
venerata et secum tacitus modo visa recenset:
hortumque arbustumque virens et pinguis olivae
exiguos flores et lactum melle salictum.
Hinc lentis vestita hederis tua saxa, Vacuna,
suspicit, hinc villam candentem vertice collis,
cui pinus lato nigrescens imminet orbe.
"Quas" inquit tacitus "nugas meditaris, Horati,
aut ad lene sacri fontis caput, aut ubi pinus
umbram consociant ramis et populus alba?
An glebas dicam te vix et saxa movere
ilia ducentem, multo sudore madentem?
Excipit en lippum de saepe repente cachinnus
risoris Cervi: «Non ista ligonibus apta est
dextera. Quam scit quisque libens exerceat artem».
Huic vitae lassos te traduxere Camenae,
me ferrum et caedes: eadem miramur utrique.
Hic fremit innumeris foliorum populus umbris,
hic longo invitat somnos Digentia cantu,
hic clymeni flores carpens apis aera bombo
personat... " At fesso obrepit tum somnus; inertis
paulatim venas et lumina coniventis
occupat. In somnis ecce immensum ferit aures
murmur, quale premens foliis folia edere ventus,
quale solet noctu multarum lapsus aquarum,
aut qualem efficiunt examina densa canorem.
Panditur interea vasto circum orbe theatrum
et cunei ante oculos tunicata plebe frequentes,
atque alii scandunt fremitu scalaria mixto.
Adsurgunt: podium ingrederis tu, maxime Caesar.
Purpureae fulgent lento vestes incessu,
atque atros flammante sinus toga sanguine mutat.
Tum tuba signa canit: tardis Veianius errat
luminibus circurnspiciens et milia cernit
multa in se demens oculorum fixa crepantesque
attonitus media palmas exaudit arena.
Ipse manu crispat nudus gladium, ipse Syro par
commissus: grandis spes omnibus una duelli est.
"Quid"? secum meditatur "an Orcus reddere discit
exstinctas animas? nonne istum iam meus ensis
abstulit? at coram cerno, quin torva tuentem!
Quis fuit antiqua me iterum qui inclusit arena,
desuetumque Syri gladio qui tradit et irae?
Continuo ferris cur nos pugnemus acutis?
An populum exorem? an senior diludia poscam?
Pugnandum est". Animos sic fatus colligit ultro:
nequiquam; horror enim laxatos concutit artus,
poplitibus tremit infractis et bracchia pendent.
Raucisonis propter Digentia labitur undis.
Iam Syrus aversis manibus tectisque minatur:
ipse cavet tantum, veteris non immemor artis;
verum oculos gladii perstringit fulgor, et aures
tintinnant. Rectis etiam Syrus ictibus urget,
pondere nunc impellit, acumine nunc petit, ictus
et simulat variatque, et nutu fallit hiantem.
Debilis en factus nec propulsare valet iam
mucronem, et subito dum alio Syrus avocat arma,
succidit extrema frendens resupinus arena.
Conclamant omnes. - Vicinae forte cupresso
turba loquax avium densis insederat alis.
Sibila populeas frondes super incutit aura.
Ipse miser graviter suspirat et omnia circum
arrectis oculis manibusque micantia cernit.
Hic princeps, illic adstant longo ordine matres,
iuxtaque adflantis pectus victoris anhelum,
et gladio lugulum gelido crispatur hianti.
Tum digitum tollit: stant omnes pollice verso.
"Veiani" victor victi sic intonat aurem
«Veiani» ast ille expergiscitur. «Heus ita dudum
stertendo toto pervincis rure cicadas.
Quin surgis? » laeto haec Venusinus Horatius ore.
«Surge, ignave:» - sed ille oculos terit, explicat artus -
«conveniunt Variam, viridisque Lucretilis omnis
agricolis tanquam formicis semita fervet,
quos vocat ad trivium stridenti buccina cantu».




Veianio
Di Giovanni Pascoli
Traduzione di Salvatore Quasimodo

Veianio, appese le armi al tempio di Ercole,
si è ritirato nella solitudine del suo campo.
Orazio, Epistole I, 1, 4.

Nel mattino d’estate, Veianio guarda i Penati adorni di fiori e il focolare odoroso di rose e verde di rosmarino, e ammira la casa così pulita che ogni oggetto riluce nitidi per le assidue cure. E si affretta, perché i Lari gli siano propizi, a immolare una pingue agnella. Già le miche di sale si disperdono lampeggiando qua e là o crepitando vengono divorate dalla brace ardente, e sugli altri odori prevale tenace quello che vien su col fumo dell’agnella.
Questo giorno di festa riporta grande gioia a Veianio che, or’è un anno, dopo aver ricevuto la verga del gladiatore, si è ritirato in solitudine nel suo campo per vivere finalmente con se stesso, lontano dall’odore acre del sangue. Siano dunque liberi oggi gli schiavi dai lavori consueti: sia giorno di riposo, sia quiete; si depongano le falci e i sarchi: e i buoi strappino a poco a poco dalla mangiatoia l’odoroso fieno e l’asinello rotoli libero il dorso sui prati; e voi, o servi, sedetevi intorno al focolare allegramente scherzando, e la casa risuoni delle vostre voci mentre siete a banchetto. La massaia freni il clamore; ma in mezzo il figlio dello schiavo scuota pure con la mano tremula il sistro donatogli dal padrone.
Ora, dopo il pranzo, il padrone se ne va qua e là per il suo campo, e conta le giovani viti, i teneri grappoli a lui noti, e gli orni ai quali egli stesso osò innestare ramoscelli di melo, e i ciliegi da lui piantati. Giunge finalmente presso la fitta siepe irta di rovi e odorosa di caprifoglio che si stende intorno al podere; e ripensa assorto a tutte le cose viste da poco: e all’orto, e ai giovani alberi verdeggianti, e ai lievi fiori della pingue uliva, e al salceto ricco di miele. E qui Veianio guarda i tuoi muri di pietra ricoperti dalla lenta edere, o Vacuna, e in cima al poggio la bianca casa cui sovrasta il largo giro la nera ombra di un pino. “Quali fantasie” dice fra sé “stai meditando, Orazio, presso la dolce sorgente della fonte sacra, o dove il pino e il bianco pioppo intrecciano le loro ombre coi rami? O forse, tutto affannato e madido di sudore, smuovi le zolle e i sassi? Ad un tratto, dietro la siepe, una risata sorprende quel lippo: è Cervio beffardo. «No, non è adatta alla zappa la tua destra. Si contenti ognuno di esercitare l’arte che sa.» Te le Muse, me il gladio e la strage ridussero stanchi a questa vita, ed ora apprezziamo le stesse cose. Qui con innumerevoli ombre di foglie mormora il pioppo, e la Digenzia col suo lungo canto invita al sonno; qui le api succhiano il fiore del caprifoglio e l’aria risuona de loro ronzio.”
Allora il sonno dolcemente prese Veianio stanco: a poco a poco un torpore gl’invase le vene e gli chiuse gli occhi. Ed ecco, nel sonno, un lungo mormorio colpisce le sue orecchie, come uno stormire di foglie al vento, come uno scorrere di molte acque nella notte, o come un ronzare di fitti sciami. Ora, davanti ai suoi occhi, in vasto cerchio si apre l’anfiteatro, e nei cunei si affolla la plebe, e altri spettatori si arrampicano per le scalinate con vociare confuso.
D’improvviso tutti si alzano: entri tu nel podio, o sommo Cesare. Splendono le vesti di porpora al muovere lento dei passi, e la toga tra i cupi riflessi delle pieghe brilla come di sangue. Ecco, la tromba dà il segnale. Veianio si avanza vacillando, lentamente volge intorno lo sguardo e, come folle, sente migliaia di occhi che lo fissano, e ode attonito un applauso salire clamoroso da mezzo dell’arena. Proprio lui, nudo, con la spada in pugno, proprio lui deve battersi con Siro: e grande è in tutti l’attesa per il combattimento.
“Come” pensa Veianio “forse l’Orco ha imparato a restituire i morti? La mia spada già non uccise costui? Eppure, me lo vedo davanti, e mi guarda torvo. Chi mi ha chiuso un’altra volta nell’antica arena, e ormai disavvezzo mi espone alla spada e alla furia d Siro? Perché dobbiamo subito combattere con le armi taglienti? Devo supplicare la folla, oppure, ora che sono vecchio, chiedere tregua? Bisogna combattere”.
Allora raccoglie tutte le sue forze. Invano; un fremito già scuote le membra stanche, le ginocchia si piegano tremanti e le braccia pendono inerti. La Digenzia scorre vicino col fioco suono delle acque. Già Siro lo minaccia con colpi obliqui e furtivi che egli riesce appena a schivare, non dimentico dell’abilità di un tempo; ma il balenare della spada gli abbaglia la vista, e sente un ronzio alle orecchie. Più volte Siro lo incalza con colpi diritti, e ora gli è addosso con tutto il suo peso, ora gli va contro di punta, e simula e varia i colpi, e lo stordisce con finte. Ormai Veianio, malfermo, non sa sviare neppure la punta della spada, e mentre Siro fa una rapida finta, egli, fremente d’ira, casa supino al limite dell’arena. La folla acclama ad alta voce. - Proprio allora uno stormo canoro di uccelli dalle folte ali si era posato su un cipresso vicino, e il soffio del vento agitava le foglie del pioppo. - L’infelice Veianio gravemente sospira e si vede d’intorno un palpitare di mani e di occhi levati. Qui, davanti a lui, sta Cesare, là le matrone in lunga fila, e sente il petto anelante del vincitore che gli respira sul volto, e il gelo della spada gl’increspa la gola spalancata. Allora egli alza il dito: tutti sono in piedi col pollice verso” “Veianio!” urla il vincitore nell’orecchio del vinto “Veianio!” Veianio si desta. «Ehi! È un pezzo che col tuo russare vinci le cicale per tutta la campagna. Perché non ti alzi?» gli dice lietamente il venosino Orazio: «Alzati, pigro». Veianio si strofina gli occhi, si stira le membra. «Oggi è mercato a Varia, e ogni sentiero del verde Lucrètile brulica di contadini come di formiche. La búccina con ululo rauco li chiama sulla strada».

Commenti

Post più visti del mese

Milano, agosto 1943

Orietta Quasimodo

Dalla Rocca di Bergamo Alta