Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.






Note di Danilo Ruocco

L'impossibilità creativa del poeta non è data da mancanza di ispirazione, ma dalla barbarie delle guerra, dall'orrore dell'occupazione del suolo italiano da parte della Germania Nazista («il piede straniero sopra il cuore»).
Il canto poetico, simbolo di comunicazione serena tra gli uomini, resta muto per scelta («per voto»). A tale proposito Quasimodo scrisse in una nota dedicata alla poesia: «Il poeta non canta, dico io, nel primo verso, […] perché il canto è la rivelazione più profonda del sentimento dell'uomo»*.
Restando mute le voci “calde”, “vere” (perché rivelatrici del «sentimento dell'uomo») dei poeti, la comunicazione umana sembra affidata soltanto a uno strumento “freddo” (in quanto tecnologico e “funzionale”) quale è il telegrafo. Ma anch'esso, però, in tempo di barbarie, perde la sua unica funzione (quella, appunto, di facilitare la comunicazione tra gli uomini) e ne assume un'altra del tutto inumana (quella di crocifisso per i giovani: i «figli»).
I salici (piangenti) sono le piante a cui sono appese, volontariamente, le cetre dei poeti. In questa immagine ci sono echi della Bibbia (il Salmo CXXXVII nel quale si parla della sofferenza degli ebrei durante la cattività babilonese) e del Nabucco di Verdi (il coro “Va' pensiero sull'ali dorate”, precisamente i versi «Arpa d'or dei fatidici vati | perché muta dal salice pendi?», cui sembra dare una risposta Quasimodo).
La poesia fu «scritta alla fine dell'inverno del 1944, nel periodo più crudele della nostra storia»* e fa parte, come Milano, agosto 1943 (leggi), di Giorno dopo giorno (vedi scheda).


* Salvatore Quasimodo citato da Rosalma Salina Borello in Per conoscere Quasimodo, Milano, Mondadori, 1973, p.71.

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