Poeta o traduttore? Un falso dilemma

Alcuni critici si sono chiesti se Salvatore Quasimodo fosse più un eccelente traduttore o un sommo poeta, se, insomma, la sua poesia valesse da sola o si giovasse, in qualche modo, di quella dei poeti da lui tradotti, in un certo qual senso, vivendo di luce riflessa.
Personalmente, considero tale questione ingiusta, ancorché peregrina: il valore di Quasimodo—poeta è di per sé evidente anche solo a una rapida lettura dei suoi versi; e se le traduzioni da lui effettuate restano insuperate, è perché era grande poeta.
Indubbio, poi, il fatto che egli traducesse solo quei poeti che sentiva, ovvero che più erano vicini alla sua poesia, al suo mondo poetico.
Altra sterile questione che infastidì Quasimodo—traduttore fu la non supposta aderenza filologica al testo da lui tradotto. Fermo restando il fatto che alcune versioni da lui approntate sono più “esatte” filologicamente di quelle di certi filologi, va riconosciuto il merito a Quasimodo d’avere tradotto da poeta, ovvero — come si è detto poco fa — sentendo il poeta sul quale stava lavorando.
Già Luigi Berti, nel 1956, concludendo la sua Introduzione1 all’edizione einaudiana della Tempesta di Shakespeare tradotta da Quasimodo espresse il parere che la sua convinzione che solo i poeti dovessero tradurre i poeti, ne risultava più radicata dall’esempio offerto da Quasimodo.
In definitiva, a mio avviso, chiedersi se Salvatore Quasimodo fu più poeta o traduttore è un falso dilemma: fu grande traduttore, perché fu grande poeta.


1 Cfr. Luigi Berti, Introduzione, in William Shakespeare, La tempesta, s.l. <ma Torino>, Einaudi, 1956, p. XII.

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